lunedì 8 aprile 2019

Benedettine di Rosano

Le Monache Benedettine di Rosano sono celebri sia perché hanno molte vocazioni religiose, sia perché il Cardinale Ratzinger vi andava spesso per trascorrere qualche giorno di riposo e raccogliemento. La chiesa del monastero e le funzioni religiose sono accessibili ai fedeli, in particolare per la Santa Messa e i Vespri, mentre resta normalmente chiusa per le altre Ore Liturgiche. Durante il canto delle Ore (usano gregoriano e latino), le monache restano nel loro coro, che è separato da una grande grata in ferro. Il Monastero ha una foresteria che può ospitare circa una ventina di persone. Attualmente le monache sono circa 60, ma ad esse vanno aggiunte 10-15 che si trovano in un altro Monastero, che rischiava la chiusura per mancanza di vocazioni e che è stato rivitalizzato con le monache di Rosano. Si tratta del Monastero di Claro in Svizzera che adesso è un priorato di Rosano. Dunque per loro il problema delle vocazioni non esiste. Sarà forse perché cercano di osservare la Regola di San Benedetto con più fedeltà?
La Madre Abbadessa (Madre Stefania Robione) è molto "materna" ed accogliente. Le ragazze in discernimento vocazionale possono contattarla per chiedere di passare qualche giorno con loro.

Monastero Di Rosano
Località Rosano
Borgo del Monastero 13,
50067 Rignano sull'Arno (Firenze)
Tel. 055-8303006
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venerdì 22 febbraio 2019

Benedettine Abano Terme

Le monache benedettine hanno un monastero di clausura ad Abano Terme (località Monteortone, in provincia di Padova).
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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez (1526 - 1616).

In che cosa consista lo spirito di povertà

   Cristo nostro Redentore ci dice egli stesso in che cosa, consista la perfezione della povertà professata dai religiosi: Beati i poveri in spirito. Ci dice che deve essere una povertà in spirito, cioè di volontà ed affetto. Non basta lasciare esternamente la ricchezza del mondo, è necessario che la lasci anche il cuore. È povertà in spirito quella che libera non soltanto il corpo, ma lo spirito e il cuore, quella che li distacca da tutto perché siano liberi e possano liberamente e senza impedimento seguire Cristo e darsi totalmente alla ricerca della perfezione, ciò che è il fine per cui siamo venuti in religione.
   S. Gerolamo (Comm. in Ev. Matth., l. 3) medita sulla risposta di Cristo nostro Redentore a S. Pietro: «In verità vi dico: voi che avete seguito me» (Matth 19, 28). S. Pietro aveva detto: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito: che cosa dunque avremo? E Cristo risponde: In verità vi dico: voi che avete seguito me...» Notate, dice il santo, che non disse: «In verità vi dico: voi che avete lasciato tutte le cose», ma, «Voi che avete seguito me». Anche Diogene, Antistene e molti altri filosofi lasciarono tutte le cose. S. Gerolamo (Adv. Iovin., l. 2, n. 9; Cfr. Epist. 118 ad Iulian., n. 5 e Epist. ad Paulin., n. 2) racconta di uno di essi, di nome Crate, tebano, che, essendo molto ricco e volendosi dedicare alla filosofia e alla virtù senza essere impedito da niente, vendette tutti i suoi possedimenti e gettò il ricavato in mare insieme ad una borsa d'oro, dicendo: Andatevene al fondo, malvagie cupidigie! Sommergo voi, perché voi non abbiate a sommergere me! Di un altro filosofo, Focione, che risplendette massimamente per la sua povertà, si racconta che quando Alessandro Magno gli mandò in dono la 
somma di cento talenti d'oro, che in nostra moneta equivalgono a sessantamila scudi, chiese a quelli che gliela portavano: «Perché l'imperatore mi manda questo?»
   Quelli risposero: «Unicamente per la tua virtù; perché ti stima l'uomo più virtuoso che ci sia tra gli Ateniesi».
   E quello di nuovo: «Ebbene, lasciatemi allora esser tale!»
   E non volle assolutamente accettare (PLUTARCH. Moral. apoph. Phocion, n. 9). Fu così celebrato questo episodio che per molto tempo, tra i filosofi greci, non si discusse di altro: chi era più grande Alessandro o Focione che aveva respinto le ricchezze di Alessandro? Se mi credi sinceramente virtuoso, lascia che lo sia e non darmi ricchezze che me lo impediscano: di tanta virtù esistono molti esempi!
   E al contrario, sia S. Gerolamo che S. Agostino affermano che non sono l'oro o l'argento a portare alla perdizione (AUG. Epist. ad Hilarium, n. 23; HIERON., Epist.. 79 ad Salv. n. 1). E portano a conferma i patriarchi del Vecchio Testamento, Abramo, Isacco, Giacobbe, che furono ricchissimi; Giuseppe che veniva nel regno subito dopo il Faraone e comandava tutta la terra d'Egitto; Daniele e i suoi tre compagni che ebbero gran dominio in Babilonia (Cfr. Dn 2, 49), Mardocheo ed Ester nel regno di Assuero; Davide e Giobbe e molti altri: tutti uomini che in mezzo alle ricchezze e al fasto del mondo seppero conservare la povertà di spirito, perché non avevano immerso in esse il cuore, ma lo custodivano secondo il consiglio del Profeta: «Se ricchezza e fasto vi abbondi non si gonfi il cuor vostro!» (Ps 62, 11).
   Ma, tornando al nostro argomento, due sono le condizioni che si richiedono per la povertà di spirito professata da noi religiosi: primo, la rinunzia a tutte le cose del mondo, come di fatto facciamo col voto di povertà; secondo, che lasciamo tutto anche con l'affetto, e questa è la condizione principale, richiesta, perché il cuore sia libero da ogni impedimento e capace di darsi tutto a Dio e al lavoro della perfezione. Pertanto dice S. Tommaso (2-2, q. 186, a. 3) che la prima condizione, quella del distacco effettivo è ordinata alla seconda e ci rende facile il distacco affettivo per il quale è il mezzo più efficace; e riferisce il pensiero di S. Agostino (Epist. ad Paulinum, n. 5), secondo il quale quando possediamo le cose terrene, le amiamo più ardentemente, per cui ci è anche più difficile perderne l'affetto. È molto più facile non amare ciò che non si ha, che lasciare ciò che si ha: ci si disfa di ciò che non si poso siede come di cosa estranea, ma ciò che si possiede è così unito e quasi incorporato a noi, che, dice S. Tommaso, sentiamo nel privarcene il dolore che prova chi è amputato di un membro.
   I santi Gerolamo, Agostino e Gregorio trattano esaurientemente questo argomento, commentando le parole di S. Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa». Dice S. Gerolamo: S. Pietro e gli altri apostoli non erano che poveri pescatori e si guadagnavano da mangiare col lavoro delle loro mani; non possedevano che miseria, una vecchia barca e rete rammendate; e con tutto ciò dicono con grande fiducia: «Ecco abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito». Risponde S. Gregorio (Hom. 5 in Matth., n. 2): «In questo caso, fratelli miei, dobbiamo pensare più all'amore con cui erano legati a ciò che possedevano, che al valore di ciò che possedevano. Molto abbandonò colui che non tenne nulla per sé, molto abbandonò colui che lasciò tutto quel poco che aveva. Noi infatti sentiamo amore per quelle cose che già possediamo, e desiderio per quelle infinite che non possediamo affatto. Molto adunque lasciarono gli apostoli quando troncarono anche il desiderio di possedere». Lascia molto chi lascia tutto quello che ha e con esso anche il desiderio di possedere. Lo stesso dice S. Agostino (l. c.): Con ragione dissero gli apostoli di aver lasciato ogni cosa, pur non possedendo che alcune barchette e reti rotte, perché lascia e disprezza tutte le cose chi lascia e disprezza non soltanto ciò che possiede, ma anche ciò che potrebbe possedere.
   Ciò è di gran conforto per quelli che hanno lasciato poco, perché non avevano di più. S. Agostino (Epist. 89 ad Hilarium, n. 39), parlando di se stesso, dopo aver lasciato quello che aveva dice: Non perché io non ero ricco mi sarà considerato di meno quello che ho lasciato, perché neanche gli apostoli erano ricchi; ma chi lascia tutto, lascia non solo ciò che ha, ma tutto quello che potrebbe desiderare. Tanto lascia uno per Dio, quanto smette di desiderare per amar suo. Pertanto hai lasciato il mondo e tutte le cose se ne hai lasciato l'affetto e il desiderio, non solo di quello che avevi, ma anche di tutto quello che potresti avere e desiderare; allora potrai rallegrarti e dire con gli apostoli: «Ecco, Signore, abbiamo lasciato ogni cosa per te». Chi nel mondo possedeva molto non si stimi maggiore, né creda di aver lasciato di più, perché se non ha lasciato il desiderio di tutto ciò che poteva avere e desiderare, ha lasciato poco. Lascia molto di più chi ha lasciato ogni desiderio delle cose del mondo.
   Adunque, in questo consiste essenzialmente la povertà in spirito: nel distacco, in questo spogliarsi di ogni affetto, nel disprezzare tutto, nello stimare tutto come immondizie, come dice S. Paolo, nel calpestare tutto allo scopo di guadagnare Cristo (Philip 3, 8).
   Tali sono i poveri in spirito che egli chiama beati, e con molta ragione; non solo perché, come abbiamo detto, il regno dei cieli è loro, ma anche perché cominciano a godere fin da quaggiù di una sazietà così grande, che è già una beatitudine su questa terra. «La felicità, dice Boezio (De consol. philos., l. 3, prosa 2), non è l'effetto del godimento di molte cose, ma dell'adempimento dei propri desideri». E S. Agostino (Lib. 13, de Trinitate, c. 5): «È felice chi ha tutto ciò che vuole e non vuole nulla di male». Ora, ciò è piuttosto dei poveri in spirito, che non dei ricchi e dei potenti del mondo, perché i poveri in spirito hanno tutto ciò che desiderano, non desiderando nulla al di fuori di ciò che hanno; ciò basta loro e non desiderano di più, anzi pare che tutto sopravanzi; mentre i ricchi del mondo non sono mai sazi, né contenti. Dice il Savio: «Chi ama il denaro mai di denaro è sazio» (Eccli 5, 9). La cupidigia non dice mai basta, perché le cose non possono saziare l'appetito, ma piuttosto lo eccitano ed accrescono. Come l'idropico, quanto più beve, più ha sete: così l'avaro, per quanto abbia, desidera sempre quel che gli manca, sospira per avere di più, perché non considera quello che ha, ma quello che potrebbe avere; prova più sofferenza per quanto gli manca, che soddisfazione per quanto possiede, é vive perciò sempre con pena e tormento, affamato, desideroso, in cerca di avere di più.
   Si racconta di Alessandro Magno che, avendo udito dal filosofo Anassarco che esistono infiniti mondi, cominciò a piangere; interrogato dai suoi sulla ragione di quelle lagrime, rispose: Non vi pare che abbia molta ragione di piangere, se essendoci tanti mondi, come dice costui, non ho ancora potuto impadronirmi di uno solo? Provava maggior pena per ciò che non aveva, che per quello che possedeva (PLUTARCH., Moral. de tranquill. animi, t. 2, p. 2). Al contrario il filosofo Cratete, con una cappa logora ed un vecchio mantello, era così contento che pareva per lui fosse sempre il giorno di Pasqua. Era più soddisfatto e ricco della sua povertà, di Alessandro che possedeva tutto il mondo. S. Basilio narra che le stesse parole disse il cinico Diogene ad Alessandro. Vedendolo Alessandro in così estrema povertà, gli fece questa proposta:
    Mi sembra che tu abbia bisogno di molte cose: chiedimele e te le darò.
   Cui il filosofo rispose:
     Imperatore, secondo te a chi manca di più, a me che non desidero altro che il mio mantello e la mia bisaccia, o a te che, essendo re di Macedonia, ti esponi a tanti rischi, pur di ampliare il tuo regno, e alla cui cupidigia non basta il mondo intero? Sono più ricco io di te!
   S. Basilio commenta che il filosofo rispose molto bene; ditemi: chi è più ricco, colui a cui le cose sopravanzano o colui a cui mancano? Evidentemente colui al quale sopravanzano. Ora per quel filosofo tutto era troppo e non gli mancava nulla di ciò che desiderava, perché non desiderava più di quanto possedeva, mentre ad Alessandro mancava molto in paragone di ciò che desiderava e avrebbe voluto avere; dunque, Diogene, che era più indigente di Alessandro, era più ricco di Alessandro (Hom. 24, n. 8).
   La vera ricchezza e la felicità di questa vita non consistono perciò nell'aver molto, ma nel compimento dei desideri e nella sazietà della volontà; né la povertà sta nell'indigenza delle cose, ma nella fame e nel desiderio che di esse si ha e in quell'insaziabile sete di possedere. Oltre a ciò Platone (Refert Clemens Alexand., 1. 2, Stromat.), dice che chi è buono è anche ricco. S. Giovanni Crisostomo illustra questa affermazione con un bel paragone. Se uno avesse tanta sete, egli dice, che dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua, ne bevesse un altro e ciò nonostante l'ardore interno non riuscisse a saziarsi, non lo diremmo fortunato, pur avendo tanta abbondanza d'acqua da bere? Riterremmo più fortunato colui che non ha sete, né voglia di bere, perché il primo è piuttosto un idropico o un ammalato con forte febbre, mentre l'altro è nella normalità. Tale è la differenza tra quelli che desiderano ricchezze e i veri poveri in spirito, che sono soddisfatti di ciò che hanno e non desiderano altro: questi sono sazi e quelli affamati e assetati, i primi sono ricchi, gli altri poveri. Questo dice lo Spirito Santo per bocca di Salomone: «Vi è chi pare ricco e non ha nulla: e vi è chi pare povero, ed è in mezzo a molte ricchezze» (Prov 13, 7), sempre affamato e bramoso di altro, per l'impressione che gli manchi sempre qualcosa. Sai questo che cos'è? La miseria, l'infelicità e l'indigenza che le ricchezze portano con sé, incapaci come sono a dare la felicità; mentre l'altra è la beatitudine che nasce dalla povertà in spirito e che dà una grande dilatazione d'animo appena si comincia a goderla.
   Dicono che Socrate solesse dire: Dio non ha bisogno di nulla e pertanto gli somiglia di più chi possiede poche cose e si accontenta di meno. Si dice pure che passando per la piazza del mercato e vedendo la moltitudine di oggetti che vi si vendevano dicesse: Di quante cose non ho bisogno! Il volgo e gli avari, quando vedono tutte queste cose dicono invece: Quante cose mi mancano! (LAERTIUS, l. 2. - BLOSIUS, l. 5, c. 23).


[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di virtù cristiane" di Padre Alfonso Rodriguez, SEI, Torino, 1931]. 

martedì 28 agosto 2018

Sperare contro ogni speranza

Dagli scritti di Padre Gabriele di S. Maria Maddalena (1893 - 1953).


Dammi, o Signore, una speranza invincibile; insegnami a sperare contro ogni speranza, insegnami a « soprasperare ». 

1 - Diamo prova della saldezza della nostra fede quando perseveriamo in essa malgrado le oscurità; diamo prova della saldezza della nostra speranza quando non cessiamo di sperare malgrado le circostanze avverse per cui ci sembra talvolta che Dio ci abbia abbandonati. Come è più meritorio l’atto di fede fatto in mezzo alle tenebre ed ai dubbi, così è più meritorio l’atto di speranza emesso in mezzo alla desolazione ed all’abbandono. Le virtù teologali sono il mezzo più adatto e proporzionato per unirci a Dio, e di fatto ci uniremo di più a lui quanto più la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità saranno pure, intense, pienamente soprannaturali. Proprio per farci giungere a ciò, Dio ci fa passare attraverso il crogiuolo della prova. Per ogni anima cara a Dio si rinnova, in certo modo, la storia di Giobbe: egli è provato nei beni, nei figli, nella sua persona; è abbandonato dagli amici e dalla moglie; da ricco e stimato qual era, si trova solo, su un letamaio, ricoperto di un’orribile lebbra dalla testa ai piedi. Ma, se Dio è buono, se è vero che ci vuol bene, perchè permette tutto ciò? Perchè ci lascia soffrire? « Dio non ha fatto la morte - dice la Sacra Scrittura - nè si allieta della perdizione dei viventi... Ma gli empi, con la mano e con la voce, chiamano la morte » (Sap.1,13 e 16). La morte e la sofferenza sono conseguenze dei peccati che Dio non impedisce perchè vuol lasciare l’uomo libero. E, tuttavia, non soffrono solo i peccatori, ma anche gli innocenti: perchè? Perchè Dio vuol provarli come si prova l’oro nella fornace, perchè vuole purificarli, vuole inalzarli ad un bene e ad una felicità immensamente superiori ai beni ed alle felicità della terra. Ed ecco che Dio permette la sofferenza dei buoni e si serve anche delle conseguenze del peccato - guerre, disordini, ingiustizie sociali e private -per il maggior bene dei suoi eletti. Resta però che, mentre siamo nella prova, non vediamo, non comprendiamo il perchè di essa; Dio non ci dà conto della sua condotta, non ci svela i suoi piani e perciò è per noi duro resistere nella fede e nella speranza. Duro, ma non impossibile, perchè è certo che Dio non ci manda mai prove superiori alle nostre forze, come pure è certo che Dio non ci abbandona mai, se non siamo noi i primi ad abbandonarlo. 

2 - Il minimo atto di speranza, di fiducia in Dio, formulato in mezzo alla prova, in uno stato di desolazione interiore od esteriore, vale immensamente più di mille atti formulati nel tempo della gioia, della prosperità. Quando soffri nell’anima o nel corpo, quando sperimenti il vuoto dell’abbandono e dell’impotenza, quando sei travagliato dalle ripugnanze e dalle ribellioni della natura che vorrebbe scuotere il giogo del Signore, non puoi pretendere di avere il sentimento confortante della speranza, della fiducia, anzi, spesso ne proverai il sentimento contrario e, tuttavia, anche in questo stato puoi fare atti di speranza e di fiducia, non sentiti, ma voluti. Le virtù teologali si esercitano essenzialmente con la volontà; quando il sentimento le accompagna, il loro esercizio è soave, consolante; ma quando rimane il puro atto della volontà, allora questo esercizio è arido e freddo, eppure, non per questo è meno meritorio, anzi, può esserlo ancora di più e dà molta gloria a Dio. Non devi, quindi, turbarti se non senti più la fiducia, ma devi voler avere fiducia, devi voler sperare e sperare ad ogni costo, malgrado tutti i colpi che Dio t’infligge per mezzo della prova. Allora è il momento di ripetere con Giobbe: «Quand’anche Dio mi uccidesse, in lui spererò » (13,15). Non illuderti di poter passare attraverso queste prove senza dover lottare contro lo scoraggiamento, contro tentazioni di sfiducia e forse anche di disperazione; questa è la reazione della natura che si ribella a ciò che la ferisce. Il Signore, che conosce la nostra debolezza, non ci condanna, ma ci compatisce. Questo stato non offende Dio, purchè tu cerchi sempre dolcemente di reagire con atti di fiducia voluta. Ogni volta che l’onda dello scoraggiamento tenta di travolgerti, reagisci ancorandoti in Dio con un semplice movimento di fiducia; anche se in certi periodi la tua vita spirituale dovesse ridursi a questo esercizio, non avresti perduto nulla ma, anzi, avresti guadagnato molto. Proprio attraverso queste prove si arriva all’esercizio eroico della fede e della speranza; e l’eroismo delle virtù è necessario per arrivare alla santità. 

Colloquio - « Salvami, o Dio, perchè mi arriva l’acqua sino alla gola! Mi trovo immerso in un profondo pantano senza punto d’appoggio; sono sceso in fondo all’acqua e la corrente mi travolge. Sono stanco di chiamare, ho secche le fauci, ho consunti gli occhi in attesa di te, mio Dio. Ma io fo a te la mia preghiera, o Signore, implorando un tempo favorevole. O Dio, per la tua grande bontà rispondimi con la costanza del tuo soccorso. Traimi dal fango perchè non ci affondi; ch’io scampi dai nemici e dal fondo dell’acqua. Esaudiscimi per la tua pietosa bontà; per la tua somma clemenza volgiti a me, non nascondermi il tuo volto. Salvami, poichè Tu sei la mia speranza, o Signore Iddio! Tu la mia sicurezza sin dall’infanzia, in te sempre ho riposto la mia fiducia. O Dio, non startene lontano da me, accorri in mio aiuto. Io soffro, ma sempre spererò in te e abbonderò vieppiù in ogni tua lode. Tu,che mi facesti provare grandi angustie e sciagure, ancora mi ridonerai la vita e mi farai risalire dai cupi abissi terrestri; accrescerai la mia grandezza e continuerai a consolarmi» (Sal. 68 e 70). 

« O Speranza, dolce sorella della fede, tu sei quella virtù che con le chiavi del Sangue di Cristo disserri a noi la vita eterna. Tu guardi la città dell’anima dal nemico della confusione; e, quando il demonio, con la gravità delle colpe commesse, vuol gettare l’anima nella disperazione, tu non rallenti i tuoi passi ma, tutta virile, perseveri nella fortezza, ponendo sulla bilancia il prezzo del Sangue di Cristo. Tu poni la corona della vittoria in capo alla perseveranza, poichè sperasti conseguirla in virtù del Sangue » (S. Caterina da Siena). 


[Scritto tratto da “Intimità Divina”, di Padre Gabriele di S. Maria Maddalena, pubblicato dal Monastero S. Giuseppe delle Carmelitane Scalze di Roma, imprimatur: Vicetiae, 4 martii 1967, + C. Fanton, Ep.us Aux.].

giovedì 5 luglio 2018

Della conoscenza di Dio

Di Padre Adolphe Tanquerey (1854 - 1932)


Poichè la perfezione consiste nell'unione dell'anima con Dio, è chiaro che, per arrivarvi, bisogna anzitutto conoscere i due termini dell'unione, Dio e l'anima: la conoscenza di Dio ci condurrà direttamente all'amore: noverim te ut amem te! la conoscenza di noi stessi, facendoci stimare quel tanto di bene che Dio ha posto in noi, ci ecciterà alla riconoscenza; e la vista delle nostre miserie e dei nostri difetti, facendoci concepire un giusto disprezzo di noi stessi, produrrà direttamente l'umiltà, noverim me, ut despiciam me, e quindi pure l'amor di Dio, perchè l'unione con Dio non si opera se non nel vuoto di noi medesimi.

I. Della conoscenza di Dio.

Per amar Dio, bisogna prima di tutto conoscerlo: nil volitum quin præcognitum. Quanto più dunque ci applichiamo a studiarne le perfezioni, tanto più il nostro cuore s'infiamma d'amore per lui, perchè tutto in lui è amabile: egli è la pienezza dell'essere, pienezza di bellezza, di bontà e d'amore: Deus caritas est. È cosa evidente. Resta quindi a determinare:

1° ciò che di Dio dobbiamo conoscere per amarlo; 2° come giungere a questa affettuosa conoscenza.

[...]

Di Dio dobbiamo conoscere tutto ciò che può farcelo ammirare ed amare, e quindi la sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue opere, specialmente la sua vita intima e le sue relazioni con noi. Nulla di ciò che riguarda la divinità è estraneo alla devozione: anche le stesse verità più astratte hanno un lato affettivo che aiuta singolarmente la pietà. Dimostriamolo con alcuni esempi tratti dalla filosofia e dalla teologia.

A) Verità filosofiche.   a) Le prove metafisiche dell'esistenza di Dio sono certo molto astratte, pure sono una miniera di preziose riflessioni che conducono all'amor di Dio. Dio, primo motore immobile, atto puro, è la fonte d'ogni movimento; dunque io non posso muovermi che in Lui e per Lui; dunque deve essere il primo principio di tutte le nostre azioni; e se ne è il primo principio, ne deve pur essere l'ultimo fine: Ego sum principium et finis. Dio è la causa prima di tutti gli esseri, di tutto ciò che v'è di buono in me, delle nostre facoltà, dei nostri atti: a Lui solo dunque ogni onore e ogni gloria! Dio è l'Essere necessario, il solo necessario "unum necessarium"; e quindi il solo bene da cercare; tutto il resto è cosa contingente, accessoria, passeggiera, e non può essere utile che in quanto ci conduce a quest'unico necessario. Dio è l'infinita perfezione e le creature non sono che un pallido riflesso della sua bellezza, è quindi Lui l'ideale a cui mirare: "Estote perfecti sicut et Pater vester cælestis perfectus est"; onde noi non dobbiamo mettere alcun limite alla nostra perfezione: "Io che sono infinito, diceva Dio a S. Caterina da Siena, vado cercando opere infinite, vale a dire un infinito sentimento d'amore".

b) Se passiamo poi alla natura divina, il poco che ne conosciamo ci distacca dalle creature e da noi stessi per inalzarci a Dio. Dio è la pienezza dell'essere: "Ego sum qui sum"; il mio essere non è dunque che un essere mutuato, incapace di sussistere da sè, e che deve riconoscere la sua assoluta dipendenza dall'Essere divino. Questo egli voleva inculcare a S. Caterina da Siena, quando le diceva: "Sai, o figlia mia, ciò che sei tu e ciò che sono io?... Tu sei quella che non è e Io sono Colui che è". Qual lezione d'umiltà e d'amore!

c) Lo stesso è degli attributi divini; non ve n'è alcuno che, ben meditato, non serva a stimolare il nostro amore sotto una forma o sotto un'altra: la divina semplicità ci eccita a praticare quella semplicità o purità d'intenzione che ci fa tendere direttamente a Dio, senza alcun egoistico riguardo a noi stessi; la sua immensità che ci avvolge e compenetra, è il fondamento di quell'esercizio della presenza di Dio che è così caro e così proficuo alle anime pie; la sua eternità ci distacca da tutto ciò che passa, rammentandoci che ciò che non è eterno è nulla: "quod æternum non est nihil est"; la sua immutabilità ci aiuta a praticare, in mezzo alle umane vicissitudini, quella calma tanto necessaria all'intima e durevole unione con Dio; la sua infinita attività stimola la nostra e c'impedisce di cadere nella noncuranza o in una specie di pericoloso quietismo; la sua onnipotenza, posta a servizio della infinita sua sapienza e della misericordiosa sua bontà, ci ispira una filiale confidenza che agevola in modo singolare la preghiera e il santo abbandono; la sua santità ci fa odiare il peccato e amare quella purità di cuore che conduce all'unione intima con Dio: "Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt"; la infallibile sua verità è il più saldo fondamento della nostra fede; la sua bellezza, la sua bontà, il suo amore ci rapiscono il cuore e vi destano palpiti d'amore e di riconoscenza. E quindi le anime sante si dilettano di inabissarsi nella contemplazione dei divini attributi: ammirando e adorando le perfezioni di Dio, ne attraggono qualche cosa nell'anima loro.

B) Si dilettano principalmente di contemplare le verità rivelate, che riguardano tutte la storia della vita divina: la sua fonte nella SS. Trinità; le sue prime comunicazioni con la creazione e la santificazione dell'uomo; la sua restaurazione con l'Incarnazione; la attuale sua diffusione con la Chiesa e coi Sacramenti; il suo compimento finale nella gloria. Ognuno di questi misteri le rapisce e le infiamma d'amore per Dio, per Gesù, per le anime, per tutte le cose divine.

a) La vita divina nella sua fonte è la SS. Trinità: Dio, che è la pienezza dell'essere e della carità, contempla se stesso da tutta l'eternità; contemplandosi produce il Verbo, e questo Verbo è suo Figlio, distinto da Lui ma a Lui perfettamente uguale, vivente e sostanziale sua immagine. Dio Padre ama questo Figlio e ne è riamato; e da questo mutuo amore scaturisce lo Spirito Santo, distinto dal Padre e dal Figlio dai quali procede, e perfettamente uguale all'uno e all'altro. A questa vita noi partecipiamo!

b) Essendo infinitamente buono, Dio vuole comunicarsi ad altri esseri: il che fa con la creazione e principalmente con la santificazione. Per la creazione noi siamo servi di Dio, ciò che è per noi già un grande onore; che Dio infatti abbia pensato a me da tutta l'eternità e m'abbia scelto tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, l'intelligenza, qual motivo d'ammirazione, di riconoscenza e d'amore! Ma che m'abbia poi chiamato a partecipare alla sua vita divina, che m'abbia adottato in figlio, che mi destini alla chiara visione della sua essenza e a un amore infinito, o non è questo il colmo della carità? E non sarà un potente motivo d'amarlo senza riserva?

c) Per colpa del primo padre avevamo perduto i diritti alla vita divina ed eravamo incapaci di ricuperarli da noi stessi. Ma ecco che il Figlio di Dio, vedendo la nostra miseria, si fa uomo come noi, e diventando il capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, espia i nostri peccati con la dolorosa sua passione e morte di Croce, ci riconcilia con Dio, e fa di nuovo scorrere nelle anime nostre una partecipazione di quella vita da lui attinta nel seno del Padre. Vi è qualche cosa di più atto a farci amare il Verbo Incarnato, a unirci strettamente a Lui, e per Lui al Padre?

d) Ad agevolare questa unione, Gesù continua a restare con noi; vi resta per mezzo della Chiesa che ce ne trasmette e ce ne spiega gli insegnamenti. Vi resta per mezzo dei Sacramenti, misteriosi canali della grazia che ci comunicano la vita divina. Vi resta principalmente per mezzo dell'Eucaristia, in cui Gesù perpetua nello stesso tempo la sua presenza, la benefica sua azione e il suo sacrifizio: il suo sacrifizio nella Santa Messa, ove rinnova in modo misterioso la sua immolazione; la benefica sua azione nella Comunione, in cui viene con tutti i suoi tesori di grazia a perfezionare l'anima nostra e a comunicarle le sue virtù; la permanente sua presenza, imprigionandosi volontariamente, giorno e notte, nel tabernacolo, ove possiamo visitarlo, conversare con lui, glorificare con lui l'adorabile Trinità, trovare in lui la guarigione delle nostre spirituali ferite e il conforto nelle nostre tristezze e nei nostri abbattimenti: "Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos".

e) E questo non è che il preludio della vita consumata in Dio che godremo per tutta l'eternità; lo vedremo un dì a faccia a faccia, come egli vede se stesso, e l'ameremo con perfetto amore; e vedremo e ameremo in lui tutto ciò che vi è di grande e di nobile. Usciti da Dio con la creazione, a lui ritorniamo con la glorificazione, e glorificandolo troviamo la perfetta felicità.

Il domma è dunque la fonte della vera devozione e l'alimento; ci rimane ora a dire che modo dobbiamo giovarcene sotto questo rispetto.



[Brano tratto da “Compendio di Teologia Ascetica e Mistica”, di Padre Adolphe Tanquerey (1854 - 1932), trad. P. Filippo Trucco e Can.co Luigi Giunta, Società di S. Giovanni evangelista - Imprimatur Sarzanæ, die 18 Novembris 1927, Can. A. Accorsi, Vic. Gen. - Desclée & Co., 1928]

domenica 1 luglio 2018

Attratta dalla vita claustrale

Una ragazza che frequenta spesso un monastero di Monache Benedettine, ha scritto una bella lettera sulla vita monastica.

Ciao, mi chiamo [...], ho 28 anni […].
Se qualche volta avete compiuto un ritiro spirituale da soli, forse avrete apprezzato la tranquillita' cui siete andati incontro senza volerlo, la semplicita' di essere costantemente alla presenza di Dio. Puo' succedere che molti di noi non sono abituati a vivere ore non del tutto programmate, prive di notizie, di conversazioni, ci sentiamo ad un certo punto intimiditi dal silenzio. Se non scappiamo dalla solitudine ai primi segni di difficoltà, possiamo imparare a stare soli e rimanere nel silenzio, sembra assurdo ma vero....incomincia in noi anche il desiderio della solitudine e sentire il bisogno di luoghi e momenti in cui noi e Dio stiamo semplicemente insieme privi di eventuali distrazioni (televisione e cellulari) che ci portano ad avere difficoltà a metterci in collegamento col Signore. Impariamo a desiderare un ritiro nel deserto...

Mentre scrivo queste parole immagino la serenita' del Monastero delle Monache Benedettine di Fermo che visito molte volte. ^_^ Ricordo anni fa, quando alcune mie amiche tra cui mia sorella mi invitavano ad andare con loro al monastero, allora non ero molto spinta ad andare...pensavo ad altro, ma al ritorno dal ritiro le mie amiche mi raccontavano entusiaste la loro esperienza; ad un certo punto mi incuriosii e incominciai a chiedermi "Che ci stanno a fare delle donne in clausura?" Travalicare il muro e sbirciar dentro affascina e tenta ogni ricercatore, sempre curioso e interessato, pellegrino della storia. Ma come si svolge la loro vita tutto il giorno? E poi quella molla segreta e misteriosa che le tiene dentro! Quella passione che le lega forte a Cristo....loro sposo per sempre! Stanno insieme nel monastero, tutte travolte dall'unica passione che le ha maritate a Cristo. Pregano, lavorano e alimentano lo spirito e la vita. Curano l'orto per avere frutta, fiori e ortaggi tutto l'anno, nel laboratorio delle ostie preparano particole per la Celebrazione Eucaristica per tutta la Diocesi, nel laboratorio di sartoria per tante ore tagliano, cuciono e ricamano. Accolgono, fedeli al carisma benedettino, tante persone alla ricerca di una parola di vita e ragazze in discernimento vocazionale. Mentre lavorano, non perdono di vista il rapporto con il loro Amato...ma nel loro cuore alimentano ogni attimo l'amore per Lui, custodito attraverso la LECTIO DIVINA quotidiana alla quale, anch’io, sono stata avviata dalla Madre Abbadessa e con la quale, fra l’altro, ho avuto un bellissimo e costruttivo dialogo.

La Comunità benedettina celebra quotidianamente la Liturgia delle Ore. Quando mi recai lì, mi sentii inizialmente estranea, ma loro con semplicità mi invitarono, mi travolsero e presto feci coro, ad ogni cenno discreto intuivo quando dovevo alzarmi e quando sedermi sulle panche. Piano piano la preghiera prendeva calore e colore in me, mi trasportava in un mondo che non e' il mio mondo abituale; e avvertivo che comune e', per me e per le monache, il punto d'arrivo e il punto di partenza: Dio soltanto!!! Le Lodi cantate sono un incanto, bisogna ascoltarli in latino gli inni che cantano ad ogni inizio di liturgia per sentirne il vigore e la fortezza!!! La recita della compieta alla sera completa e chiude il programma di preghiera ufficiale; mi piace tanto la compieta, essa e' proiettata sulla notte, perché passi serena, ristoratrice, e corpo e anima siano ben protetti. Non esiste monastero senza campanella. ^_^ Suona la campanella del monastero tante volte al giorno per richiamare le monache alla preghiera, la sua voce rompe il silenzio e ti fa piacere sentirla: annuncia di lasciare tutto per ritornare ad incontrare e lodare Cristo in chiesa!

Mi sono sentita nascere...e dire che mi sentivo vuota di dentro...si scopre, cosa ormai rara, la capacita' di stupirsi. Questa e' la malattia della nostra societa': non sapersi stupire di nulla. Ma la scoperta di Dio che e' dentro di noi, questa, sì, stupisce ancora. La sua voce ascoltiamola dentro di noi, accogliamola, non chiediamoci come sia possibile che il Signore ci parli, ci chiami. Lasciamo da parte ogni altro interesse e andiamo dove Dio ci fa andare e soprattutto…lasciamoci guidare!

E' necessario respirare l'aria di un monastero per sfiorarne il mistero e innamorarsene. Questo ho meditato nel monastero che mi ospita, con cuore riconoscente...

venerdì 22 giugno 2018

Carità verso Dio e carità verso il prossimo

1° Interroghiamo la S. Scrittura. A) Nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, ciò che domina e compendia tutta la Legge è il gran precetto della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo. Quindi, quando un dottore della legge domanda a Nostro Signore che cosa bisogna fare per acquistare la vita eterna, il divin Maestro gli risponde soltanto: Che cosa dice la legge? E il dottore pronto gli cita il testo del Deuteronomio: "Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex omnibus viribus tuis et ex omni mente tua, et proximum tuum sicut teipsum. E Nostro Signore l'approva dicendogli: "Hoc fac et vives". Aggiunge altrove che questo doppio precetto dell'amor di Dio e dell'amor del prossimo costituisce la legge e i Profeti. Ed è ciò che sotto altra forma dichiara S. Paolo, quando, dopo aver rammentati i principali precetti del Decalogo, aggiunge che la pienezza della legge è l'amore: "Plenitudo legis dilectio". Così l'amor di Dio e del prossimo è nello stesso tempo la sintesi e la pienezza della Legge. Ora la perfezione cristiana non può essere che l'adempimento perfetto ed intero della Legge; perchè la Legge è ciò che Dio vuole, e che cosa v'è di più perfetto della santa volontà di Dio?

B) Vi è un'altra prova tratta dalla dottrina di S. Paolo sulla carità nel cap. XIIIº della Iª Lettera ai Corinti; con lirico linguaggio Paolo vi descrive l'eccellenza della carità, la sua superiorità sui carismi o sulle grazie gratisdate, sulle altre virtù teologali, la fede e la speranza; e mostra ch'essa compendia e contiene in modo eminente tutte le virtù, che è anzi il complesso di queste virtù: "caritas patiens est, benigna est; caritas non æmulatur, non agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quærit quæ sua sunt, non irritatur, non cogitat malum..."; e in ultimo aggiunge che i carismi passeranno, che la fede e la speranza spariranno, ma che la carità è eterna. Non è questo un insegnare che non solo la carità è la regina e l'anima delle virtù, ma che è pur così eccellente da bastare a rendere un uomo perfetto, comunicandogli tutte le virtù?

C) S. Giovanni, l'apostolo del divino amore, ce ne dà la fondamentale ragione. Dio, egli dice, è carità, "Deus caritas est"; è questa, a così dire, la sua nota caratteristica. Se dunque vogliamo somigliar a lui ed essere perfetti come il Padre celeste, bisogna che noi amiamo lui come egli ha amato noi "quoniam prior ipse dilexit nos"; e non potendo amar lui senza amar pure il prossimo, dobbiamo amare questo caro prossimo fino a sacrificarci per lui, "et nos debemus pro fratribus animas ponere": "Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perchè l'amore viene da Dio, e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore... Or questo amore sta in ciò che non fummo noi ad amar Dio, ma egli il primo amò noi e mandò il suo Figliuolo vittima di propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati in tal guisa, dobbiamo noi pure amarci l'un l'altro... Dio è amore e chi sta nell'amore sta in Dio e Dio in lui" 314-2. Si può dire in modo più chiaro che tutta la perfezione consiste nell'amor di Dio e del prossimo per Dio?

2° Interroghiamo la ragione illuminata dalla fede: se consideriamo sia la natura della perfezione sia la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione.

A) Abbiamo detto che la perfezione d'un essere consiste nel conseguire il proprio fine o nell'avvicinarsegli quanto più è possibile (n. 306). Ora il fine dell'uomo nell'ordine soprannaturale è Dio eternamente posseduto con la visione intuitiva e con l'amore beatifico; sulla terra ci avviciniamo a questo fine vivendo già in unione intima con la SS. Trinità che vive in noi e con Gesù mediatore necessario per andare al Padre. Quanto più dunque siamo uniti a Dio, ultimo nostro fine e fonte della nostra vita, tanto più siamo perfetti.

Or qual è tra le virtù cristiane la più unificante, quella che unisce l'anima nostra intieramente a Dio, se non la divina carità? Le altre virtù ci preparano a questa unione, o anche a lei ci iniziano, ma non possono compierla. Le virtù morali, prudenza, fortezza, temperanza, giustizia, etc., non ci uniscono direttamente a Dio, ma servono solo a sopprimere o diminuire gli ostacoli che ce ne allontanano e ad avvicinarci a Dio conformandoci all'ordine; così la temperanza, combattendo lo smoderato uso del piacere, attenua uno dei più violenti ostacoli all'amor di Dio; l'umiltà, allontanando l'orgoglio e l'amor proprio, ci predispone alla pratica della divina carità. Inoltre queste virtù, facendoci praticare l'ordine ossia la giusta misura, sottomettono la nostra volontà a quella di Dio e ci avvicinano a lui. Le virtù teologali poi distinte dalla carità, ci uniscono certamente a Dio, ma in modo incompleto. La fede ci unisce a Dio, infallibile verità, e ci fa vedere le cose alla luce di Dio; ma è compatibile col peccato mortale che ci separa da Dio. La speranza ci eleva a Dio, in quanto è cosa buona per noi, e ci fa desiderare i beni del cielo, ma può sussistere con colpe gravi che ci allontanano dal nostro fine.

La sola carità ci unisce intieramente a Dio. Suppone la fede e la speranza ma le oltrepassa: prende tutta quanta l'anima, intelligenza, cuore, volontà, attività, e la dà a Dio senza riserva. Esclude il peccato mortale, che è il nemico di Dio, e ci fa godere della divina amicizia: "Si quis diligit me, et Pater meus diliget eum". Ora l'amicizia è unione, è fusione di due anime in una sola: cor unum et anima una... unum velle, unum nolle; completa unione di tutte le nostre facoltà: unione della mente, che fa che il nostro pensiero si modelli su quello di Dio; unione della volontà, che ci fa abbracciare la volontà di Dio come fosse nostra; unione del cuore, che ci stimola a darci a Dio come Egli si dà a noi, dilectus meus mihi et ego illi: unione delle forze attive, onde Dio mette a servizio della nostra debolezza la divina sua potenza per aiutarci a eseguire i nostri buoni disegni. La carità ci unisce dunque a Dio, nostro fine, a Dio infinitamente perfetto, e costituisce quindi l'elemento essenziale della nostra perfezione.

B) Studiando la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione: come infatti dimostra S. Francesco di Sales, la carità racchiude tutte le virtù e dà loro anzi una speciale perfezione 318-1.

a) Racchiude tutte le virtù. La perfezione consiste, com'è chiaro, nell'acquisto delle virtù: chi le possiede tutte, in un grado non solo iniziale ma elevato, è certamente perfetto. Ora chi possiede la carità possiede tutte le virtù e le possiede nella loro perfezione: possiede la fede, senza cui non si può conoscere ed amare l'infinita amabilità di Dio; e la speranza, che, ispirandoci la fiducia, ci conduce all'amore; e tutte le virtù morali, per esempio, la prudenza, senza cui la carità non potrebbe nè conservarsi nè crescere; la fortezza, che ci fa trionfare degli ostacoli che si oppongono alla pratica della carità; la temperanza, che doma la sensualità, implacabile nemica dell'amor di Dio.

Anzi, aggiunge S. Francesco di Sales, "il grande Apostolo non dice solo che la carità ci dà la pazienza, la benignità, la costanza, la semplicità, ma dice ch'essa stessa è paziente, benigna, costante", perchè contiene la perfezione di tutte le virtù.

b) Anzi dà loro una perfezione e un valore speciale, perchè è, secondo l'espressione di S. Tommaso, la forma di tutte le virtù. "Tutte le virtù separate dalla carità sono molto imperfette, perchè non possono senza di lei giungere al loro fine che è di rendere l'uomo felice... Non dico che senza la carità non possano nascere e anche progredire; ma che abbiano tal perfezione da meritare il titolo di virtù fatte, formate e compite, questo dipende dalla carità, che dà loro la forza di volare a Dio, e raccogliere dalla sua misericordia il miele del vero merito e della santificazione dei cuori in cui si trovano. La carità è tra le virtù come il sole tra le stelle: distribuisce a tutte la loro luce e la loro bellezza. La fede, la speranza, il timor di Dio e la penitenza, vengono ordinariamente nell'anima prima di lei a prepararle la dimora; e giunta che è, la ubbidiscono e la servono come tutte le altre virtù, ed ella le anima, le adorna e le avviva con la sua presenza". In altri termini, la carità, orientando direttamente l'anima nostra verso Dio, perfezione somma ed ultimo fine, dà pure a tutte le altre virtù che vengono a porsi sotto il suo impero, lo stesso orientamento e quindi lo stesso valore. Così un atto d'obbedienza e di umiltà, oltre al proprio valore, riceve dalla carità un valore assai più grande quando è fatto per piacere a Dio, perchè allora diventa un atto di amore, cioè un atto della più perfetta tra le virtù. Aggiungiamo che quest'atto diventa più facile e più attraente: obbedire e umiliarsi costano molto alla orgogliosa nostra natura, ma il pensiero che, praticando questo atti, si ama Dio e se ne procura la gloria, li rende singolarmente facili.

Così dunque la carità è non solo la sintesi ma l'anima di tutte le virtù, e ci unisce a Dio in modo più perfetto e più diretto delle altre; è quindi lei quella che costituisce l'essenza stessa della perfezione.



(Brano tratto da “Compendio di Teologia Ascetica e Mistica”, di Padre Adolphe Tanquerey (1854 - 1932), trad. P. Filippo Trucco e Can.co Luigi Giunta, Società di S. Giovanni evangelista - Desclée & Co., 1928)

giovedì 29 giugno 2017

Cosa bisogna fare nella direzione spirituale?

Dagli scritti di Padre Adolphe Tanquerey (1854 - 1932).


Il diretto vedrà Nostro Signore nella persona del direttore; infatti se è vero che ogni autorità viene da Dio, la cosa è anche più vera quando si tratta dell'autorità che il sacerdote esercita sulle coscienze: il potere di legare e di sciogliere, di aprire e di chiudere le porte del cielo, di guidar le anime nelle vie della perfezione, è il più divino di tutti i poteri, e non può quindi trovarsi se in chi è il rappresentante ufficiale e l'ambasciatore di Cristo [...]. È questo il principio da cui derivano i tre doveri verso il direttore: rispetto, confidenza, docilità.

A) Bisogna rispettarlo come il rappresentante di Dio, rivestito della sua autorità in ciò che ha di più intimo e di più onorevole. Perciò se avesse qualche difetto, non ci si fissa il pensiero e non se ne guarda che l'autorità e la missione. Si schiveranno quindi attentamente quelle critiche acerbe che fanno perdere o attenuano il rispetto filiale che gli si deve avere. Si eviterà pure quella eccessiva familiarità che è difficilmente compatibile col vero rispetto. Questo rispetto sarà temperato dall'affetto, affetto semplice e cordiale ma rispettoso come di figlio a padre; affetto che escluda il desiderio d'esserne amato in particolare, e le piccole gelosie che talora ne seguono. "Deve insomma essere amicizia forte e dolce, tutta santa, tutta sacra, tutta divina e tutta spirituale".

B) Rispetto accompagnato pure da filiale confidenza e da grande apertura di cuore. "Trattate con lui (col direttore) a cuore aperto, dice S. Francesco di Sales, con tutta sincerità e fedeltà, manifestandogli chiaramente il bene e il male vostro senza finzioni nè dissimulazioni: a questo modo il vostro bene sarà esaminato e diverrà più sicuro e il male sarà corretto e rimediato... Abbiate in lui somma confidenza associata a sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza". Bisogna quindi aprirgli il cuore con intiera confidenza, palesargli le tentazioni e le debolezze perchè ci aiuti a vincerle o a guarirle, i desideri e le risoluzioni per averne l'approvazione, il bene che intendiamo fare perchè lo rinsaldi, i futuri disegni perchè li esamini e ci suggerisca i mezzi di porli in esecuzione, tutto ciò insomma che si riferisce al bene dell'anima nostra. Quanto più ci conoscerà tanto più potrà saviamente consigliarci, incoraggiarci, consolarci, fortificarci, cosicchè, uscendo dalla direzione, ripeteremo le parole dei discepoli d'Emmaus: "Non è vero che il cuore ci ardeva dentro mentre ci parlava?"

Vi sono persone che bramerebbero di aver questa perfetta apertura, ma che, per una certa timidità o riserbo, non sanno come esporre lo stato dell'anima loro. Ne facciano parola col direttore ed egli le aiuterà con opportune interrogazioni, e, occorrendo, col prestar loro qualche libro che insegni il modo di conoscersi e di scrutarsi; rotto che sia il ghiaccio, le comunicazioni diverranno poi facili.

Altri invece sono inclinati a discorrer troppo e cangiar la direzione in pia chiacchierata; si ricordino costoro che il tempo del sacerdote è limitato, che altri aspettano il loro turno e potrebbero impazientirsi di queste lungaggini. Bisogna quindi sbrigarsi, lasciando pur qualche cosa per la prossima seduta.

C) La franchezza dev'essere accompagnata da grande docilità nell'ascoltare e nel seguire i consigli del direttore. Non c'è nulla di meno soprannaturale che volerlo indurre nei nostri sentimenti e nelle nostre idee; nulla pure di più nocivo al bene dell'anima; perchè non si cerca allora la volontà di Dio ma la propria, con questa circostanza aggravante che si abusa d'un mezzo divino a fine egoistico. L'unico nostro desiderio dev'essere di conoscere la divina volontà per mezzo del direttore, e non di estorcerne l'approvazione con più o meno abili raggiri; si potrà riuscire a ingannare il direttore ma non a ingannare chi è da lui rappresentato.

Abbiamo certo il dovere di fargli conoscere i nostri gusti e le nostre ripugnanze, e se scorgiamo difficoltà o una specie d'impossibilità a mettere in pratica quel tal suo consiglio, dobbiamo dirglielo con tutta semplicità; ma, fatto questo, non ci resta che sottometterci. Assolutamente parlando, il direttore può ingannarsi ma non c'inganniamo noi nell'ubbidirgli, salvo naturalmente il caso che ci consigliasse qualche cosa di contrario alla fede o ai costumi, che allora bisognerebbe cambiar direttore.

[...] Per altro verso bisogna rammentare che la Chiesa insiste sempre più sulla libertà che si deve avere nella scelta del confessore; chi dunque ha buone ragioni per rivolgersi ad altri, non deve esitare a farlo. Quali sono queste ragioni? 1) Se, nonostante tutti gli sforzi fatti, uno non riesce ad aver pel proprio direttore il rispetto, la confidenza e l'apertura di cui abbiamo parlato, bisogna cambiarlo, quand'anche si trattasse di sentimenti privi di buono o sodo fondamento; perchè non si potrebbe allora trar profitto dai suoi consigli. 2) Tanto più poi se ci fosse fondatamente da temere che ci distogliesse dalla perfezione o per motivi troppo naturali o per affetto troppo vivo e troppo sensibile che ci dimostrasse. 3) Così pure se uno chiaramente si accorgesse che il direttore non ha nè la scienza, nè la prudenza, nè la discrezione necessaria.


[Brano tratto da “Compendio di Teologia Ascetica e Mistica”, di Padre Adolphe Tanquerey (1854 - 1932), trad. P. Filippo Trucco e Can.co Luigi Giunta, Società di S. Giovanni evangelista - Imprimatur Sarzanæ, die 18 Novembris 1927, Can. A. Accorsi, Vic. Gen. - Desclée & Co., 1928]