venerdì 22 febbraio 2019

Benedettine Abano Terme

Le monache benedettine hanno un monastero di clausura ad Abano Terme (località Monteortone, in provincia di Padova).
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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez (1526 - 1616).

In che cosa consista lo spirito di povertà

   Cristo nostro Redentore ci dice egli stesso in che cosa, consista la perfezione della povertà professata dai religiosi: Beati i poveri in spirito. Ci dice che deve essere una povertà in spirito, cioè di volontà ed affetto. Non basta lasciare esternamente la ricchezza del mondo, è necessario che la lasci anche il cuore. È povertà in spirito quella che libera non soltanto il corpo, ma lo spirito e il cuore, quella che li distacca da tutto perché siano liberi e possano liberamente e senza impedimento seguire Cristo e darsi totalmente alla ricerca della perfezione, ciò che è il fine per cui siamo venuti in religione.
   S. Gerolamo (Comm. in Ev. Matth., l. 3) medita sulla risposta di Cristo nostro Redentore a S. Pietro: «In verità vi dico: voi che avete seguito me» (Matth 19, 28). S. Pietro aveva detto: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito: che cosa dunque avremo? E Cristo risponde: In verità vi dico: voi che avete seguito me...» Notate, dice il santo, che non disse: «In verità vi dico: voi che avete lasciato tutte le cose», ma, «Voi che avete seguito me». Anche Diogene, Antistene e molti altri filosofi lasciarono tutte le cose. S. Gerolamo (Adv. Iovin., l. 2, n. 9; Cfr. Epist. 118 ad Iulian., n. 5 e Epist. ad Paulin., n. 2) racconta di uno di essi, di nome Crate, tebano, che, essendo molto ricco e volendosi dedicare alla filosofia e alla virtù senza essere impedito da niente, vendette tutti i suoi possedimenti e gettò il ricavato in mare insieme ad una borsa d'oro, dicendo: Andatevene al fondo, malvagie cupidigie! Sommergo voi, perché voi non abbiate a sommergere me! Di un altro filosofo, Focione, che risplendette massimamente per la sua povertà, si racconta che quando Alessandro Magno gli mandò in dono la 
somma di cento talenti d'oro, che in nostra moneta equivalgono a sessantamila scudi, chiese a quelli che gliela portavano: «Perché l'imperatore mi manda questo?»
   Quelli risposero: «Unicamente per la tua virtù; perché ti stima l'uomo più virtuoso che ci sia tra gli Ateniesi».
   E quello di nuovo: «Ebbene, lasciatemi allora esser tale!»
   E non volle assolutamente accettare (PLUTARCH. Moral. apoph. Phocion, n. 9). Fu così celebrato questo episodio che per molto tempo, tra i filosofi greci, non si discusse di altro: chi era più grande Alessandro o Focione che aveva respinto le ricchezze di Alessandro? Se mi credi sinceramente virtuoso, lascia che lo sia e non darmi ricchezze che me lo impediscano: di tanta virtù esistono molti esempi!
   E al contrario, sia S. Gerolamo che S. Agostino affermano che non sono l'oro o l'argento a portare alla perdizione (AUG. Epist. ad Hilarium, n. 23; HIERON., Epist.. 79 ad Salv. n. 1). E portano a conferma i patriarchi del Vecchio Testamento, Abramo, Isacco, Giacobbe, che furono ricchissimi; Giuseppe che veniva nel regno subito dopo il Faraone e comandava tutta la terra d'Egitto; Daniele e i suoi tre compagni che ebbero gran dominio in Babilonia (Cfr. Dn 2, 49), Mardocheo ed Ester nel regno di Assuero; Davide e Giobbe e molti altri: tutti uomini che in mezzo alle ricchezze e al fasto del mondo seppero conservare la povertà di spirito, perché non avevano immerso in esse il cuore, ma lo custodivano secondo il consiglio del Profeta: «Se ricchezza e fasto vi abbondi non si gonfi il cuor vostro!» (Ps 62, 11).
   Ma, tornando al nostro argomento, due sono le condizioni che si richiedono per la povertà di spirito professata da noi religiosi: primo, la rinunzia a tutte le cose del mondo, come di fatto facciamo col voto di povertà; secondo, che lasciamo tutto anche con l'affetto, e questa è la condizione principale, richiesta, perché il cuore sia libero da ogni impedimento e capace di darsi tutto a Dio e al lavoro della perfezione. Pertanto dice S. Tommaso (2-2, q. 186, a. 3) che la prima condizione, quella del distacco effettivo è ordinata alla seconda e ci rende facile il distacco affettivo per il quale è il mezzo più efficace; e riferisce il pensiero di S. Agostino (Epist. ad Paulinum, n. 5), secondo il quale quando possediamo le cose terrene, le amiamo più ardentemente, per cui ci è anche più difficile perderne l'affetto. È molto più facile non amare ciò che non si ha, che lasciare ciò che si ha: ci si disfa di ciò che non si poso siede come di cosa estranea, ma ciò che si possiede è così unito e quasi incorporato a noi, che, dice S. Tommaso, sentiamo nel privarcene il dolore che prova chi è amputato di un membro.
   I santi Gerolamo, Agostino e Gregorio trattano esaurientemente questo argomento, commentando le parole di S. Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa». Dice S. Gerolamo: S. Pietro e gli altri apostoli non erano che poveri pescatori e si guadagnavano da mangiare col lavoro delle loro mani; non possedevano che miseria, una vecchia barca e rete rammendate; e con tutto ciò dicono con grande fiducia: «Ecco abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito». Risponde S. Gregorio (Hom. 5 in Matth., n. 2): «In questo caso, fratelli miei, dobbiamo pensare più all'amore con cui erano legati a ciò che possedevano, che al valore di ciò che possedevano. Molto abbandonò colui che non tenne nulla per sé, molto abbandonò colui che lasciò tutto quel poco che aveva. Noi infatti sentiamo amore per quelle cose che già possediamo, e desiderio per quelle infinite che non possediamo affatto. Molto adunque lasciarono gli apostoli quando troncarono anche il desiderio di possedere». Lascia molto chi lascia tutto quello che ha e con esso anche il desiderio di possedere. Lo stesso dice S. Agostino (l. c.): Con ragione dissero gli apostoli di aver lasciato ogni cosa, pur non possedendo che alcune barchette e reti rotte, perché lascia e disprezza tutte le cose chi lascia e disprezza non soltanto ciò che possiede, ma anche ciò che potrebbe possedere.
   Ciò è di gran conforto per quelli che hanno lasciato poco, perché non avevano di più. S. Agostino (Epist. 89 ad Hilarium, n. 39), parlando di se stesso, dopo aver lasciato quello che aveva dice: Non perché io non ero ricco mi sarà considerato di meno quello che ho lasciato, perché neanche gli apostoli erano ricchi; ma chi lascia tutto, lascia non solo ciò che ha, ma tutto quello che potrebbe desiderare. Tanto lascia uno per Dio, quanto smette di desiderare per amar suo. Pertanto hai lasciato il mondo e tutte le cose se ne hai lasciato l'affetto e il desiderio, non solo di quello che avevi, ma anche di tutto quello che potresti avere e desiderare; allora potrai rallegrarti e dire con gli apostoli: «Ecco, Signore, abbiamo lasciato ogni cosa per te». Chi nel mondo possedeva molto non si stimi maggiore, né creda di aver lasciato di più, perché se non ha lasciato il desiderio di tutto ciò che poteva avere e desiderare, ha lasciato poco. Lascia molto di più chi ha lasciato ogni desiderio delle cose del mondo.
   Adunque, in questo consiste essenzialmente la povertà in spirito: nel distacco, in questo spogliarsi di ogni affetto, nel disprezzare tutto, nello stimare tutto come immondizie, come dice S. Paolo, nel calpestare tutto allo scopo di guadagnare Cristo (Philip 3, 8).
   Tali sono i poveri in spirito che egli chiama beati, e con molta ragione; non solo perché, come abbiamo detto, il regno dei cieli è loro, ma anche perché cominciano a godere fin da quaggiù di una sazietà così grande, che è già una beatitudine su questa terra. «La felicità, dice Boezio (De consol. philos., l. 3, prosa 2), non è l'effetto del godimento di molte cose, ma dell'adempimento dei propri desideri». E S. Agostino (Lib. 13, de Trinitate, c. 5): «È felice chi ha tutto ciò che vuole e non vuole nulla di male». Ora, ciò è piuttosto dei poveri in spirito, che non dei ricchi e dei potenti del mondo, perché i poveri in spirito hanno tutto ciò che desiderano, non desiderando nulla al di fuori di ciò che hanno; ciò basta loro e non desiderano di più, anzi pare che tutto sopravanzi; mentre i ricchi del mondo non sono mai sazi, né contenti. Dice il Savio: «Chi ama il denaro mai di denaro è sazio» (Eccli 5, 9). La cupidigia non dice mai basta, perché le cose non possono saziare l'appetito, ma piuttosto lo eccitano ed accrescono. Come l'idropico, quanto più beve, più ha sete: così l'avaro, per quanto abbia, desidera sempre quel che gli manca, sospira per avere di più, perché non considera quello che ha, ma quello che potrebbe avere; prova più sofferenza per quanto gli manca, che soddisfazione per quanto possiede, é vive perciò sempre con pena e tormento, affamato, desideroso, in cerca di avere di più.
   Si racconta di Alessandro Magno che, avendo udito dal filosofo Anassarco che esistono infiniti mondi, cominciò a piangere; interrogato dai suoi sulla ragione di quelle lagrime, rispose: Non vi pare che abbia molta ragione di piangere, se essendoci tanti mondi, come dice costui, non ho ancora potuto impadronirmi di uno solo? Provava maggior pena per ciò che non aveva, che per quello che possedeva (PLUTARCH., Moral. de tranquill. animi, t. 2, p. 2). Al contrario il filosofo Cratete, con una cappa logora ed un vecchio mantello, era così contento che pareva per lui fosse sempre il giorno di Pasqua. Era più soddisfatto e ricco della sua povertà, di Alessandro che possedeva tutto il mondo. S. Basilio narra che le stesse parole disse il cinico Diogene ad Alessandro. Vedendolo Alessandro in così estrema povertà, gli fece questa proposta:
    Mi sembra che tu abbia bisogno di molte cose: chiedimele e te le darò.
   Cui il filosofo rispose:
     Imperatore, secondo te a chi manca di più, a me che non desidero altro che il mio mantello e la mia bisaccia, o a te che, essendo re di Macedonia, ti esponi a tanti rischi, pur di ampliare il tuo regno, e alla cui cupidigia non basta il mondo intero? Sono più ricco io di te!
   S. Basilio commenta che il filosofo rispose molto bene; ditemi: chi è più ricco, colui a cui le cose sopravanzano o colui a cui mancano? Evidentemente colui al quale sopravanzano. Ora per quel filosofo tutto era troppo e non gli mancava nulla di ciò che desiderava, perché non desiderava più di quanto possedeva, mentre ad Alessandro mancava molto in paragone di ciò che desiderava e avrebbe voluto avere; dunque, Diogene, che era più indigente di Alessandro, era più ricco di Alessandro (Hom. 24, n. 8).
   La vera ricchezza e la felicità di questa vita non consistono perciò nell'aver molto, ma nel compimento dei desideri e nella sazietà della volontà; né la povertà sta nell'indigenza delle cose, ma nella fame e nel desiderio che di esse si ha e in quell'insaziabile sete di possedere. Oltre a ciò Platone (Refert Clemens Alexand., 1. 2, Stromat.), dice che chi è buono è anche ricco. S. Giovanni Crisostomo illustra questa affermazione con un bel paragone. Se uno avesse tanta sete, egli dice, che dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua, ne bevesse un altro e ciò nonostante l'ardore interno non riuscisse a saziarsi, non lo diremmo fortunato, pur avendo tanta abbondanza d'acqua da bere? Riterremmo più fortunato colui che non ha sete, né voglia di bere, perché il primo è piuttosto un idropico o un ammalato con forte febbre, mentre l'altro è nella normalità. Tale è la differenza tra quelli che desiderano ricchezze e i veri poveri in spirito, che sono soddisfatti di ciò che hanno e non desiderano altro: questi sono sazi e quelli affamati e assetati, i primi sono ricchi, gli altri poveri. Questo dice lo Spirito Santo per bocca di Salomone: «Vi è chi pare ricco e non ha nulla: e vi è chi pare povero, ed è in mezzo a molte ricchezze» (Prov 13, 7), sempre affamato e bramoso di altro, per l'impressione che gli manchi sempre qualcosa. Sai questo che cos'è? La miseria, l'infelicità e l'indigenza che le ricchezze portano con sé, incapaci come sono a dare la felicità; mentre l'altra è la beatitudine che nasce dalla povertà in spirito e che dà una grande dilatazione d'animo appena si comincia a goderla.
   Dicono che Socrate solesse dire: Dio non ha bisogno di nulla e pertanto gli somiglia di più chi possiede poche cose e si accontenta di meno. Si dice pure che passando per la piazza del mercato e vedendo la moltitudine di oggetti che vi si vendevano dicesse: Di quante cose non ho bisogno! Il volgo e gli avari, quando vedono tutte queste cose dicono invece: Quante cose mi mancano! (LAERTIUS, l. 2. - BLOSIUS, l. 5, c. 23).


[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di virtù cristiane" di Padre Alfonso Rodriguez, SEI, Torino, 1931].